Melchiorre Napolitano è artista di sperimentata esperienza culturale costruita certamente sulle basi della sua vocazione al trasgredir regole e mappe del dettato architettonico ed urbanistico, ma fattasi più ricca e più problematica per aver egli cercato nell’immagine d’arte un nesso dinamico fra tensione alla forma e forze—oscure e limpidissime—che tendono a dissolverla. Tutto questo poteva da prima essere ricondotto nel’ambito di una ricerca d’arte nucleare legata allo spazialismo lombardo, e non è un caso se in occasione di una mostra tenuta da Napolitano alla galleria milanese “La nuova Sfera” un critico come Cavallo riconducesse la ricerca del pittore palermitano a quella linea di poetica citando il nome di Crippa che ne fu forse l’esponente più spregiudicato ed inventivo. Il critico notava giustamente che Napolitano, andando ben oltre le tangenze verificabili fra spazialismo ed informalismo, tendeva ad una ristrutturazione dello spazio dell’opera proprio nel momento in cui cercava di evidenziarne gli aspetti emotivi. Forse era giusto, allora, notare la funzione privilegiata del colore e delle masse materiche all’interno di un gioco prospettico estremamente calibrato, ma nelle ultime opere non mi sembra che il colore ed il grumo materico che ne è la condensazione, e neppure l’aspetto prospettico siano, presi uno per uno questi elementi, davvero determinanti.

È piuttosto la luce, in cui tutto si stempera e si ricostruisce, a svolgere un ruolo di mediazione fra organico ed inorganico, fra reale ed immaginario, fra rivelazione ed apprensione pittorica. Già in un suo scritto del 1983 I’artista -architetto rifiutava emblematicamente le strutture della «città» intesa come luogo d’addensamento di modelli non solo urbanistici, ma civili e morali, proponendosi di negarli con un deciso e lontanante mutamento di prospettiva e d’orizzonti. Passare dal terreno al celeste, dalla realtà all’utopia, dal quotidiano a quel poco di metafisico che ancora ci resta da ipotizzare è cosa che non si può fare che per via di poesia e d’arte. Così nell’opera di Napolitano, costruttore per dannazione, la volontà di evadere da un mondo determinato ed incorregibile si trasforma nell’invenzione di una nuova dimensione, indefinibile e sfuggente, alla quale si può giungere soltanto con la mediazione della fantasia e, completamente, per via di pittura. V’è in questo, qualcosa del recupero romantico e metafisico che la cultura d’occidente sta elaborando in funzione d’anticorpo vitale contro le necrosi oggettualistiche e il gelo delle comunicazioni in codice. Sta qui la modernità e nello stesso tempo il fascino scompaginante di queste delicatissime tempeste di luce, di queste sottili ed insinuanti geographie dell’anima, sospesa fra terra e cielo. Iconograficamente le opere ci restituiscono visioni atmosferiche, di paesaggio dolcemente sconvolto, quali avrebbe potuto immaginarle il Turner più sereno. In effetti Napolitano dipinge metafore ed allegorie, misteri laici che richiedono—e questa è davvero una novità—una predisposizione lirica per essere interpretati. Forte è infatti l’accento che Melchiorre Napolitano pone sui valori pittorici che, per un artista moderno, non possono essere, come ho detto prima, che valori di luce, svanenti e insieme ineludibili. È la via più difficile, ma anche la più suggestiva, per raggiungere attraverso l’immaginario gli strati profondi dell’emozione che, artisticamente parlando, supera e insieme comprende la realtà. Insistita e ripetitiva, mai uguale a se stessa, I’immagine di Napolitano si fa cosi raccolta, tesa all’essenziale, implacabilmente lirica. Vi si realiza, a livello di raggiunta espressività, I’impegno del pittore a coltivare le proprie solitudini come solo strumento possibile per un rapporto autentico con gli altri.

La citazione di Modigliani, da lui avanzata in un suo scritto - e avrebbe potuto anche dire Morandi o Matisse — era significativa nel momento della scelta. In quello della realizzazione è la fede senza speranza dei romantici, la loro dannazione ai cieli rivissuta dall’artista contemporaneo senza conforto d’eroismi, che si riflette in questa ricerca - sono parole dell’artista - di “nuovi territori, nuove coste, nuove città”. Le isole della pittura possono ben immaginarsi felici, anche se si tratta oggi di isole assediate ove inquietitudini e tormenti non possono disgiungersi dalle serenità delle apparizioni. La ragione formale, quel rigore di strutture che restano al fondo come inestinguibile sostanza delle “perversioni” iconografiche, ci dicono che la ricerca di Napolitano non mira né alla pace né al caos delle astrazioni. È un aprirsi ad una nuova città del sole che, in pittura, è la dimensione di un nuovo mistero.