Non sempre l’opera di un’artista sa essere la spia fedele dell’uomo, lo specchio che ne restituisce l’immagine più netta e veritiera. Conoscere la pittura di Melchiorre Napolitano è invece scoprire anche l’uomo, le sue convinzioni, il suo bisogno di concretezza unito a una sorte di incantamento e di smarrimento religioso della natura in quanto essa è anche testimonianza viva e fermentante del suo continuo, inarrestabile farsi, rinnovarsi, divenire espressione di vita anche cercata nei suoi nuclei più reconditi e meno vistosi. In effetti ciò che all’origine appare prodotto dalla necessità della più ferma concretezza, successivamente ci si rende conto che viene sciolto in addensamenti quasi indistinti di materia, che resterebbe amorfa se il nodo visivo non riemergesse, come avviene, in nuclei dotati di netta pulsione esistenziale. Non si tratta tuttavia di frammenti di realtà, ma di inquieti segni vitali che ne cercano altri con i quali coordinarsi, come se dovessero trascorrere da una fase di sensazioni precise al loro successivo sciogliersi e riaddensarsi per effetto e in conseguenza di una spinta prodotta da imperiosa fantasia. Una fantasia che riesce a trovare il suo alimento in un senso religioso della natura. Questo discorso rischia di ingenerare qualche equivoco.
Napolitano non si pone fuori dalle realtà di natura, ma ha il potere di avvicinarle a sè fin quasi a toccarne con mano le componenti, a sentirne le pulsioni, ad avvertirne i lieviti e i ritmi. Ciò denuncia il suo tenersi distante dal veduto, manifesta la sua capacità di riuscire ad essere in mediare, di trovarsi coinvolto nei grovigli della cosa e nei suoi inestricabili filamenti creando, per dirla con Marcello Venturoli, «un paesaggio popolato in una iconografia che simula trasformazioni nello sfascio, entro un solenne e quasi tiepolesco scenario». Il suo è dunque un avvertire e sentire la natura come lo scorrere continuo di visioni non cristallizate, a guisa di altrettanti scenari da osservare nella loro immobilità, ed è perciò un viverne le incessanti trasformazioni e un soffrirne l’inesorabile disfacimento. Non so se di debba cercarne le motivazioni in questa chiave di lettura, ma a me sembra assai utile indagare in direzione di questa sua immersione nella natura. Ci si rende conto, in tal modo della ragione del suo scoprire le qualità dell’infinitamente microscopico le quali si adunano per assumere la dimensione destinata ad essere percepita dallo sguardo dell’uomo. Queste aggregazioni di più corpi mirano infatti a ricomporsi in nuove forme, che sanno di aria, di luce, di acque, in via di riacquistare una nuova dimensione, sottratta al caos dell’informe e riconsegnata alla vita.
Nella pittura di Melchiorre Napolitano nulla è quindi riconducibile al’area di una ricerca oscillante tra lo spazialismo e l’informale. Domina infatti la visione di natura, tra forma e materia, ma continua soprattutto a vivere, come ho accennato prima un mondo permeato dalla luce. Proprio la luce—già lo fece notare Franco Solmi—annulla la percezione distinta in ogni cosa, ma per darle un volto nuovo, destinato a svolgere un «ruolo di mediazione tra organico ed inorganico, fra reale ed immaginario, fra rivelazione ed apprensione pittorica». In questa silenziosa ma fermentante pittura una funzione determinante è quindi svolta dalla luce che, al primo istintivo impatto, sembra volere aggredire e stravolgere le immagini della realtà ed il loro ordine naturale mentre invece si scopre che assolve alla funzione di penetrare per decantare, di sospendere ogni immagine tra la concretezza e l’ineffabile sognato senza paventare il ricorso alla metafora, al simbolico e all’allusivo. Non appare pertanto fuori luogo affermare che si tratta di una fuga dalla realtà e insieme profonda nelI’immaginario, dove si avvertono le intense pulsioni e le vibranti sospensioni di ascendenza lirica, magari comportanti il coinvolgimento di tutte le memorie di cui altri colleghi han detto, da Turner a Constable e da Tanguy a Max Ernst. In ultima analisi si rimane sempre all’interno di un affascinante itinerario che ha il suo epicentro nell’arcano.