Presenze è un termine gravido, pregno, è un plurale dell'imprevisto, del dogma chiuso, dell'enigma e di tutto quanto regna, ma non governa, fatto della stessa sostanza dei fantasmi, dei sogni, di tutte le rane che all'improvviso cessano di gracidare, di tutti gli uccelli che sospendono di cantare all'unisono, obbedienti a un comando, invisibile ma più pesante di una mannaia affilata. Presenze, o per meglio dire le presenze, sono un fitto capitolo della storia infinita, di luoghi, dei corpi, dei gesti, delle parole e di tutto quanto, viene a comporre un sapere che rimane attaccato, al luogo in cui è nato, un volere diventato ossessione un lungo cammino che non cessa di essere lungo, si stira, si accorcia, si gruma, s'appende, facendo passi di lato, come in caucasiche danze, in lotte infime per un trofeo imprendibile.
In esse si ricompongono tutti i frammenti, scomposti nei tempi, lasciati in deriva, lì senza potersi muovere, per cantare una memoria diventata pesante dall'inanellarsi di pomeriggi di sole accecante, notti di luna calante, grigi piombi di nubi, pece nera di neri inquietanti, quasi alfabeti impazziti, numeri che non sanno contare, albe fuse a tramonti, mischie, insomma, seppure solenni. Astrazioni, sì, astrazioni, lunghissime ondate di colore, sapientemente condotte da un segreto amore per le cose, che hanno un corpo, un peso, dalle pietre all'aria, dall'inciampo al respiro, senza rompere mai il filo, non sempre uguale, ora grosso, sformato, come exitu di un gesto svogliato, ma duro, graffiante, gettato via, ora sottile, come una seta, come una virgola, di un dolce stil novo, aggraziante, parola d'amore. Appartengono ad un paradigma, sontuoso, sia da regale che da selvaggio, ora figlie sottratte, rapite attirate da un grado zero, oltre cui ci sono le assenze, i vuoti perduti, i passi ammaliati, di anoressiche specie paurose del troppo e quindi leggere, leggere, fino a far comparire, tavole o tela, poco importa, il nudo, insomma, la vergine incolta, ora, grasse nipoti, grondanti sudore, cadute oleose, come distillati e piante carnose, appese a se stesse attratte e respinte da bulimiche presse.
Tra grado del ghiaccio e quello del fuoco, cambia destino, l'astratto diventa informale, provincia del caos, dove s'incontrano sagome, a girone, ma non sono dannati, sono erranti viaggiatori, mai stanchi, che girano e voltano e si danno la voce, carichi di opere e sono rintocchi che sanno di Vedova, pittore, scorticati, come muri veneziani, come saline lucenti, con destini capovolti e terre che salgono in alto, attratte da luce, da aria e bande celesti incerte se stendersi su terre o su mari, oppure mischiarsi e perdere i sensi, fino a perdere il senso. Passato uno stretto, si presenta un capo e poi un vento impazzito che dice, è Burri, e Burri,…. mentre sacchi svuotati s'atteggiano a pieni, plastiche acute fanno triangoli e spuntano ignoti che si fingono noti e parole di sempre diventano estranee, senza che mai si veda un punto, magari due punti, perché il labirinto è grande, tanto grande, da sembrare infinito.
Qua e là tagli, come mimesi, costumi di scena, che fanno memoria, fanno Fontana con annesso Turcato, in accostamenti che sono turbini in cui appaiono, in calendario sguarnito, linee che vengono da lontano, che fanno Scialoja, tubetti di Kline, grigiori di Pollock. Trasparenze, corrispondono ai momenti, detti, dell'intermittenza, della sperimentazione, in cui la fantasia sperimenta se stessa, si mette in gioco, abbandonando gli spessori, nella cui corporalità, si insinuano le narrazioni, i racconti, le favole di identità, per lasciare il posto alla poeticità pura, senza fronzoli e decori, come una spaccatura linguistica, immaginaria, per cui si può vedere dall'altra parte, come accade in ogni attraversamento, in cui il duro si è fatto morbidezza, ma perché si veda, ci vuole nuova vista.
Il colore è l'anima di tutto, l'energia invisibile, il quid che fa la differenza, inventando il gioco dell'identità, con esso il segno, il disegno, che ha già affermato la differenza tra l'essere e il nulla , attua una proliferazione emotiva, che è come un crescendo, rendendo complessa ogni costruzione fantastica, sul filo della variazione, che fa immaginare un percorso, in cui anche una sfumatura, può diventare una essenzialità. Il segno è un corrispondente necessario, perché appartiene a quella esteriorità che istituisce i confini, tra un paesaggio e l'altro, perché di questo si tratta, con una valenza scritturale che non ammette piegamenti e ripetizioni, In quanto designa, non solo la vitalità, ma la vita stessa di una poetica, che risolve ogni stilistica in una continua fuga e fa partire il pensiero e fa partire le cose, una magia.
Colore e segno, insieme, avverano il sogno della grande scoperta dell'uomo, della prima antropologia cosciente, che non s'accontenta del passaggio, dell'orma di un piede, ma vuole il volto, il cuore, l'impronta, la decisa trasformazione, della potenza in atto e così comincia il gioco della vita, il suo percorso fatto di mille percorsi, dove ognuno può scegliere il proprio, come camera picta , come secretum , come uno e tutto. Volumi, sono i ritmi del tatto, contatto, sono le misure e le regole ignote, che permettono al quid, di fare le veci dell'universo, nel momento in cui le granitiche Colonne d'Ercole non hanno più un luogo sicuro, ma si spostano continuamente, sapendo di sapere che non c'è alternativa al cammino, al tracciato, al percorso, al nomade procedere per cose, che piovono dal cielo, cadendo o spuntano dalla terra, crescendo, senza avvertire, senza dire il come , il dove il quando , facendo di tutto, della mimesi del reale, il più grande, immobile, movente fantastico, aprendo le porte all'infinito probabile, possibile, quello che si stampa nella mente, di ognuno, di tutti, che cammina, cammina, ma poi tocca un limite, tocca una pietra e si ferma, pur sapendo che c'è sempre un oltre , che ci sarà sempre un altro. Tutto questo, insieme, costituisce un ensemble, un rito di grumi, di stesure, di spessori, di leggeri o pesanti accadimenti, in una polifonia, incredibile, magnifica, che nulla nella sua immobile maestà, fugge, sfugge da tutte le parti e si trasforma come una rarefatta, imprendibile nebulosa, macchiata, percorsa da venti di tutti i quadranti e diventa schermo, proiezione, quindi esistenza di un tratto speciale, essenziale frutto di un lavorio, meditato, profondo, che di volta in volta, evoca, materializza uno stupore. Così parlarono, come Nietzsche, le trasparenze , così si espressero i volumi, gravi, compagni assoluti delle presenze, lavorando sodo per aggiungere goccia a goccia di un artificio, amaro, umano che viene dal titanico fronte, confronto, con la natura da una parte e l'artista dall'altra, in una posa, grande finzione, che è, ribadisco, poesia, teatro, romanzo, saggio, trattato, in forma di grande quadro, fatto di tanti quadri e sculture, che spesso nel farli sono un tormento, ma poi quando sono fatti e pronti per essere visti, esaltano, diventano gioia.