Artista, architetto, docente, Melchiorre Napolitano, classe 1949, è una di quelle persone che uniscono in un mix, travolgente razionalità e passione, entusiasmo e organizzazione, che sanno abbandonarsi al sogno e allo stesso tempo valutare con metodo e acume come poterlo realizzare. È un fiume in piena, di storie, aneddoti, personaggi; ama parlare, raccontare e raccontarsi, ma quando entra nel merito della sua pittura diventa improvvisamente ‘pudico’, e preferisce fornire gli elementi-chiave di lettura essenziali per intraprendere il viaggio in quel mondo parallelo che si diverte a chiamare ‘Vulcania’.
Il nostro incontro è avvenuto qualche anno fa al Liceo Artistico “Eustachio Catalano” di Palermo, ove ho potuto apprezzarne prima le qualità di collega e poi di amico. Non si poteva dir di no, dunque, al suo affettuoso invito di scrivere questa intervista per il catalogo della sua mostra, progetto che egli insegue da anni e che finalmente vede la luce.
Quello che leggerete qui di seguito è il frutto di due lunghe chiacchierate svoltesi su un volo Palermo-Roma e nel corso di un assolato pomeriggio romano di fine settembre, nel quale, con Napolitano, abbiamo ripercorso quasi quarant’anni di carriera.

M.G. Hai iniziato a esporre nel 1966, mentre ancora stavi svolgendo gli studi artistici per poi laurearti presso la Facoltà di Architettura. Cosa ricordi del contesto palermitano nel quale hai mosso i primi passi? Chi erano i tuoi punti di riferimento? E gli amici con cui condividevi gli entusiasmi degli inizi?

M.N. Ricordo con non celata emozione quel momento. Era il periodo a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, un momento alquanto significativo per l’arte contemporanea a Palermo, che vedeva il nascere di varie gallerie e l’organizzazione di varie mostre. La mia prima personale fu allestita nel 1970 ad Arte al Borgo, la galleria di Maurilio Catalano e Raffaello Piraino, due giovani artisti di cui sono ancora amico. Avevo un gruppo di ‘inseparabili’ con cui condividevo sogni e speranze, amicizie che si sono mantenute nel tempo e che sono vive tutt’oggi: Gai Candido, Enzo Venezia, Salvatore (Tore) Marrone, Enrico Musso. Insieme trascorrevamo lunghi pomeriggi ad Arte al Borgo, dove ci si intratteneva con Leonardo Sciascia, il vero “grillo parlante” che trasformava la galleria in un cenacolo culturale e che per noi divenne un punto di riferimento, come lo era anche lo scultore Giacomo Baragli, un grande amico che mi scrisse anche la presentazione in catalogo. Io ero stato allievo di sua moglie Ines Panepinto al Liceo Artistico, ove insegnava figura disegnata. Gai Candido ed Enrico Musso collaboravano pulendo per Arte al Borgo,che era anche stamperia, le pietre litografiche per artisti come Guttuso, Caruso, Fiume e Cazzaniga, che fu il mio primo collezionista acquistando un disegno alla mostra. Ad Arte al Borgo passavano spesso numerosi intellettuali, artisti, poeti, da Alfonso Gatto a Ignazio Buttitta e Totò Bonanno insieme a Gigi Martorelli, che per noi fu un maestro, che aveva lo studio in via Belmonte. E poi non posso non citare Eustachio Catalano, che aveva incoraggiato il figlio Maurilio nella sua attività di gallerista e che, pur essendo un pittore di altra generazione, aveva uno sguardo attento verso i giovani. Un altro artista a cui mi ero legato era Mario Bardi, che mi portò a Milano per la prima personale fuori dalla Sicilia, nel 1971, alla Galleria L’Agrifoglio. È un periodo che ricordo con grande affetto, un momento di utopie molto distante dalla realtà attuale, non solo perché eravamo giovani, ma perché il contesto palermitano è molto cambiato.

M.G. In quel periodo, tra il ’69 e i primissimi anni Settanta, la tua opera oscillava tra un segno impetuoso, con implicazioni gestuali frutto di un retaggio astratto-informale abbastanza frequente nei giovani palermitani, che avevano subito il fascino della tendenza postbellica giunta un po’ tardivamente a Palermo, e una figurazione dalla fisionomia enigmatica. Ricorre spesso, ad esempio, il tema della maschera, di una figura umana-non umana che si pone con coerenza rispetto alle tue opere attuali, a una volontà di evasione verso una realtà altra. Che ne pensi?

M.N. Sì, in quel periodo realizzavo monotipi, gouache e acquerelli astratti, ma anche opere figurative in cui mi piaceva mettere soprattutto in evidenza il rapporto difficile tra uomo e natura, una natura minacciata da un uomo di cui già intuivo i tratti più ‘disumanizzati’. La maschera, infatti, obbediva alla resa di una individualità mancante e mancata, alludeva a un distacco nei confronti del mondo circostante. Dipingevo spesso anche figure sezionate, uomini divisi tra libertà e condizionamento, partecipi e prigionieri al tempo stesso. A volte erano anche uccelli, farfalle, animali bloccati dal disegno di un ferro, una trave o una semplice linea, impediti nel volo, privati della libertà ma anelanti a un al di là difficile da raggiungere, posti accanto a figure mascherate che ostentavano uno sguardo tra l’enigmatico e l’assente, l’indifferente. In quel periodo, inoltre, eravamo tutti un po’ politicizzati, orientati verso un sentire ‘rosso’ che ci faceva porre in maniera conflittuale con il mondo e alimentava la nostra volontà di cambiamento e il senso di ribellione e contestazione giovanile.

M.G. Quali sono stati gli esiti immediatamente successivi alle prime mostre? Quali i primi riscontri?

M.N. In quegli anni erano molto in voga le mostre-premio. Alla manifestazione “Palermo Pop 70”, indetta dalla galleria palermitana L’Asterisco, di piazzale Ungheria, vinsi il primo premio ex aequo con Carlo Lauricella. L’opera fu acquistata dall’architetto Puletto, mio docente in facoltà di Architettura e grande collezionista. Dopo ci fu la mostra di Milano e una serie di altre esposizioni in gallerie palermitane (Il Paladino, di Silvana Paladino e Ninni Pampalone; Ai Fiori Chiari, di Renzo Meschis, un personaggio estroso, che cantava nei night club, come me che suonavo spesso nei locali notturni).
Dal ’71 al ’74 circa ho vissuto a Milano lavorando presso lo studio di Mario Bardi e di Giorgio Carpinteri, vicino a via Garibaldi. Lì frequentavo anche Filippo Panseca, artista palermitano che si era trasferito al nord, una personalità incontenibile, un instancabile ricercatore, che a un certo punto mi cedette moltissime sue tele ancora nuove, perché aveva deciso di non dipingere più per sondare nuovi mezzi espressivi, le installazioni luminescenti, la computer art. Ho sempre cercato di muovermi molto, visitare mostre, e al tempo stesso di promuovermi. Ho vissuto per un periodo anche a New York e in Svizzera ma ho scelto di ritornare, pur sapendo che per chi non optava per la via dell’emigrazione era difficile difendere la propria idea creativa e diversificare il proprio lavoro cercando di crescere e affermarsi a Palermo. Nacquero le occasioni di una mostra a Roma, allo Studio Soligo, diretta da Francesco Soligo, e poi a Torino, Milano, Bergamo, alla Galleria Fumagalli, negli anni Ottanta. Ho avuto la fortuna di conoscere e stringere rapporti amicali con persone interessanti come il critico Franco Solmi, che divenne per un periodo un punto di riferimento e promosse la mia mostra a Bologna, nel 1987, presso la Galleria L’Ariete di Patrizia Raimondi. Sono riuscito a inserirmi nel giro delle mostre all’estero, presso le ambasciate e gli istituti italiani di cultura, cosa che mi ha permesso di viaggiare molto, dalla Jugoslavia alla Turchia, dalla Corea all’Argentina e in Brasile, dove ho esposto recentemente.

M.G. Tra tutti questi viaggi, ce n’è uno che secondo te ha influito nel tuo immaginario, segnando, in qualche maniera, il tuo percorso?

M.N. Di sicuro quello in Turchia. Ricordo che durante l’inaugurazione percepii una certa commozione da parte degli astanti. Mi spiegarono che, senza volerlo, alcuni dei miei paesaggi risultavano vicini ad alcuni scenari del territorio turco, specialmente della Cappadocia, che io però non avevo mai visitato. Il console insistette per organizzarmi un’escursione in quelle zone, a circa 300 km da Ankara, in una zona che non esiterei a definire una specie di ‘Museo della montagna’. Quello che apparve dinanzi ai miei occhi fu una distesa montuosa assolutamente spettacolare, i cosiddetti “Camini delle streghe”. Si tratta di montuosità dalla morfologia variegatissima, ove l’orografia viene modificata dal vento. Scenari simili, ma meno maestosi, si possono ritrovare nell’entroterra siciliano, specialmente nel nisseno. A distanza di anni, me ne sono ricordato nella creazione di Vulcania.

M.G. Eccoci giunti, dunque, al punto nodale della tua ultima produzione: Vulcania. Come la definiresti? Una trasposizione fantastica della Sicilia? Un luogo della mente? Una tua Isola-che-non-c’è?

M.N. Vulcania è un mondo parallelo, scevro dalle contaminazioni del nostro mondo, tutto da scoprire. È per me un mondo sognato, puro, sanguigno, dominato da una natura forte e libera di crescere, una scialuppa di salvataggio di fronte alla perdita di identità cui ci sta conducendo l’irrefrenabile globalizzazione che ha un aspetto positivo nella messa in comunicazione tra gli individui ma che ha un prezzo per me troppo caro da pagare, la perdita della specificità di luoghi, popoli, nazioni. Vulcania è la scoperta di una civiltà desiderata che non esiste, o forse, sì, e che lascia soltanto poche tracce, graffiti, segni, ma puoi solo chiederti da chi è abitato, perché non hai risposte palesi. Esso è il frutto di una ricerca, che parte soprattutto da se stessi. Il nome l’ho scelto perché mi evoca l’energia viva, viscerale, magmatica del vulcano, e forse in questo può esserci un larvato riferimento alla Sicilia, come pure nei colori caldi, nella luce, ma è sicuramente un luogo della mente e dell’anima, quello in cui mi piace rifugiarmi.